Il 5 giugno si è celebrata la Giornata mondiale dell’ambiente. Proponiamo una riflessione come sempre sotto la luce della simbologia e dei valori che contraddistinguono la nostra organizzazione. Le Droit Humain è, non a caso, la prima Massoneria a occuparsi di ambiente e di cambiamento climatico. La ragione è che quella ambientale è questione comune a tutti gli individui della Terra, senza distinzioni, e i problemi legati all’ambiente possono essere affrontati con gli strumenti universali di cui disponiamo. Crediamo fermamente che sia giunto il momento di rinnovare radicalmente lo sguardo umano sulla dualità Uomo-Natura.

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La maggioranza della popolazione mondiale la concepisce, ancora oggi, come una dicotomia, uno schema rigido, statico. Una coppia di enti irreparabilmente separati e dunque in contrasto fra loro. Un conflitto sul quale, sentiamo dire spesso, poco possiamo fare. Il dibattito pubblico ruota tutto intorno all’impotenza dell’essere umano di fronte ai cataclismi, o, tutto al contrario, alle grandi capacità che ha di modificare il paesaggio con tecniche e tecnologia sorprendenti. Si passa da un estremo all’altro a seconda del periodo in cui viviamo. Se siamo in pace e lontani da inondazioni, terremoti, tsunami, allora la narrazione che facciamo di noi stessi somiglia a un documentario su una specie intelligente, che sa sognare, progettare e realizzare imprese notevoli, attraversamenti di distese infinite e ostili, di costruttori invincibili, di esploratori dello spazio, dell’invenzione e dell’innovazione senza limiti. Se siamo in guerra e a ridosso di eventi in cui la Natura si riprende i suoi spazi, la narrazione cambia di segno totalmente, perdiamo la bussola, ci raccontiamo quali esseri insignificanti, piuttosto sciocchi, che fanno del male a sé stessi e alle altre specie, animali, vegetali o minerali che siano. Intrappolati in questo conflitto perenne, la nostra capacità di pensare non sembra servire davvero a granché. Le innovazioni e le tecniche sono tutti fuori di noi, mai davvero interiori e interiorizzate, dimostrando che non sono innovazioni del pensiero se non declinandole al passato, voltandoci indietro per studiare, ad esempio, la storia della filosofia; al contrario, le grandi facoltà intellettive, interiori per definizione, paiono attributi che ci riconosciamo da soli arbitrariamente. Infine, coloro che credono di essere più realisti del re, ritengono di aver trovato la saggezza ponendosi nel mezzo, affermando che una cosa non neghi l’altra, salvo poi vivere come semidei che le prime piogge autunnali da sole sono sufficienti a chiudere in casa togliendo loro ogni potere.

Indagare la dualità, affidarci ad essa, permette invece di attendere maggiori informazioni prima di prendere una posizione. Ci permette di porci dei dubbi quando è ancora utile averne, cioè prima di agire, per poi agire consapevolmente. La dualità Uomo-Natura è tutt’altro che immobile.

L’uomo è un frutto stesso della Natura, di una Natura che è ben lontano dal conoscere completamente, quindi non conosce sé stesso né la sua genitrice. Essendo egli stesso natura, è naturale anche un paesaggio artificiale, ma gli angoli retti a cui l’essere umano dà forma, come quelli delle pietre con cui costruisce le sue case e le sue cattedrali, è quanto la natura, pur contemplandoli, non si è spinta a realizzare. Ogni pietra cubica è già contenuta nella roccia. Eppure “naturale” è, per etimologia, non tanto il mondo verde – che è appena uno dei veli della manifestazione, il più superficiale – ma “ciò che sta per nascere”. Quanto e come deve lavorare l’essere umano affinché ogni modificazione del paesaggio diventi il luogo della nascita e non della mortificazione? Interrare un fiume, è un’azione che risponde a quale delle due? Come ci si può ancora illudere che affermando solo metà della verità del fiume (“il fiume scorrerà comunque anche sotto terra”) presto o tardi non giunga anche la seconda metà (“il fiume deve scorrere sopra la terra”)? Come ci si può ancora accontentare, per dignità propria prima ancora che nel riconoscimento delle leggi naturali, di una concezione tanto parziale della vita e del mondo? L’essere umano è un prodotto grezzo della Natura, il quale, ostinandosi a non imprimere su sé stesso le modificazioni di cui si vanta di essere capace, continua a modificare chi è meno grezzo di lui; chi, cioè, è più completo di lui anche quando si limita a vegetare, avendo dalla sua tutto il tempo necessario per trasformare in granelli intere catene montuose.

Allargare l’orizzonte della propria mente; questo deve fare l’essere umano se vuole dialogare con la natura. Allargarli fino a comprendere tutte le ere che non sarà lui in persona a vivere ma i suoi frutti, cioè i suoi figli e le sue opere, se comincerà ad amarli davvero più di quanto ami sé stesso. Quando cioè amerà il futuro più del presente. Quando renderà il futuro abitabile costruendolo oggi con quelle speciali pietre trasparenti che sono le possibilità.

Finché è concepito come dicotomia, il binomio Uomo-Natura è destinato alla distruzione come coazione a ripetere. Ogni dualità – se indossiamo i guanti bianchi della sensibilità e della pazienza – deve essere invece superata, sforzandoci di concepire una Unità totale. Ma poiché una eventuale fusione dell’Uomo e della Natura sfugge alla nostra capacità di visualizzazione, se non immaginando che uno dei due perisca per assorbimento dell’altra (ecco perché oggi la narrativa di ogni latitudine non fa che proporci scenari della nostra estinzione), la dualità torna a ripresentarsi. In questo modo dobbiamo allora concepire la dualità, non come schema mentale di partenza, ma come immagine di ritorno dell’unità inimmaginabile. È cioè la visione approssimativa, ma più vicina possibile, dell’inserimento dell’Uomo nella Natura nel migliore equilibrio tra le parti. Questa è la dualità per il Massone, è l’immagine che egli o ella conserva di ritorno dal viaggio che lo ha condotto a quell’altura da dove tutto è ricondotto all’Uno pur senza saperne tenere a lungo la visione; quel punto della consapevolezza dove l’essere umano e la natura a tratti si confondono, a tratti risplendono senza mai obliterarsi del tutto a vicenda. Un’immagine cangiante, fluida, visione di uno scambio vicendevole. Forse, il modo migliore di rispettare la natura è quello di trattarla come un’adolescente, una ragazza a cui vogliamo bene e a cui quindi lasciamo possibilità di evoluzione, di crescita, una ragazza che ci guardiamo bene dal considerare ferma, immobile, come materia concreta e finita, modificabile per mezzo di altra materia solamente, o con la nostra sola volontà o capriccio, e cominciare invece a pensarla soggetta a cambiamenti dovuti a molti fattori, più di quanti immaginiamo e che dobbiamo ammettere di non conoscere; una ragazza nella sua età evolutiva, un’età in cui possiamo essere inavvertitamente causa di turbamento, come insegna la pedagogia, se non abbiamo la capacità di porci le giuste domande.

Si rivela sempre più importante e urgente, allora, indagare la Natura con lo spirito. Avere un autentico afflato spirituale permette di sollevare lo sguardo oltre la materia immediata, bassa. Riprendendo la differenza tra Natura naturata e Natura naturante, che nel Medioevo vedeva nella prima l’esistenza delle cose finite, create, tangibili, e nella seconda la natura ancora da venire, intenzione del Creatore o direzione dell’evoluzione (appunto “ciò che sta per nascere”), possiamo sperare di smettere di agire l’agito e portarci nell’azione azionante. Azione del pensiero, intuizione, a cui corrisponde un comportamento esteriore rispettoso ed equilibrato. Immetterci nel fluire di ciò che sta per nascere nel suo pieno rispetto, come immergerci in un fiume senza per questo alterarlo e, fuor di retorica, possiamo farlo senza rinunciare all’intelligenza che abbiamo di escogitare sentieri, costruire ponti.

Giornata mondiale dell'ambiente

Nella Tradizione simbolica i riferimenti al mondo naturale sono innumerevoli, come nel Matrimonio alchemico. Fa pensare l’ambiente come luogo dell’Unità a cui tutto tende, il superamento delle dualità tra cui quella di Uomo-Natura.

Il Massone è colui o colei che ha visto che non esistono verità oggettive: tutte le osservazioni, anche le più distaccate e scientifiche, si portano dietro un’interpretazione, subiscono l’interferenza a causa di interessi che possono però diventare interessi collettivi e il fiume in cui immergerci può essere quello della progettualità.

Il filosofo Timothy Morton descrive il cambiamento climatico come un “iperoggetto”. Sembra affermare l’oggettività del problema ma con quell’”iper” davanti lo pone sopra di noi, intorno a noi; sembra dirci che ne siamo parte e che non possiamo illuderci di affrontarlo come un problema fermo, che appunto come un semplice oggetto starebbe davanti a noi su un tavolo, da osservare al microscopio con sguardo distaccato e prenderci nel farlo tutto il tempo che vogliamo come fossimo in un laboratorio. Non è col camice dell’analista che dobbiamo osservare il cambiamento climatico. La Natura ci ha già tirato fuori dal laboratorio. Siamo nella tempesta. L’ultima cosa da fare è anteporre all’iperoggettività un’ipersoggettività. Dobbiamo smetterla di lasciare che il nostro ego rilanci al rialzo con l’ambiente, che è, precisamente, il luogo della dualità Uomo-Natura. Chi impara ad avere a cuore la dualità, concepirà l’ambiente come l’alveolo da rispettare affinché ogni ente possa vivere ed esprimersi.

Il tempo è un fiume che non possiamo sotterrare. Scorre in piena, costantemente. Ogni giorno porta via un po’ delle nostre certezze e non farci i conti significa voltare le spalle a quanto oggi c’è di più grande nel mondo delle cose tangibili: i luoghi stessi, il paesaggio, la vita che respira in tutte le sue forme e le sue creature.